In anni recenti è stato un fiorire di storie legate allo sport. Quando le vicende di un campione si mescolano a scelte politiche controcorrente o a ingiustizie subite, queste somigliano alle gesta di un eroe dei nostri tempi: forza fisica, abilità, innovazione, coraggio… La narrazione contemporanea difficilmente ha creato altre figure dai connotati così epici, dai richiami così antichi. Via da lì. Storia del pugile zingaro di Pandemonium Teatro racconta di Johann Trolmann, detto Rukeli, un pugile zingaro, il cui filo biografico viene tagliato in un campo di concentramento tedesco nel 1942. Ma il nazismo aveva fin dal 1933 colpito il pugile “ballerino”, con l’accusa di muoversi in maniera scomposta, di saltare da una parte all’altra del ring, di utilizzare una tecnica ritenuta “effeminata” e perciò indegna della razza ariana. Il movimento di gambe, un atteggiamento apparentemente selvatico e l’agilità del fisico portarono Rukeli a imporsi presto come campione della Germania nella categoria mediomassimi, ma a vedersi annullato il titolo dal potere nazista. Lo spettacolo segue – così come è accaduto in questi anni nel cinema, in trasmissioni televisive, in teatro e in letteratura – una parabola di crescente pathos e coinvolgimento. Il naturale parallelismo è con il ballerino Muhammad Ali, alle prese con gli odi razziali nell’America guerrafondaia degli anni Sessanta e Settanta. Ma tra partite di calcio nei campi di concentramento, atleti di colore con il pugno chiuso, campioni ebrei perseguitati, le possibili similitudini potrebbero essere davvero tante. Lo sport è diventato un serbatoio ricco di storie che a contatto con la grande Storia producono esempi di soprusi o di riscatto. Delle tante minoranze perseguitate gli zingari continuano ad essere i meno raccontati, e questo rende ulteriormente interessante lo spettacolo.
Inizialmente il lavoro – con la duplice regia di Lucio Guarinoni e Walter Maconi, che è anche l’attore in scena – pare un po’ bloccato nelle dinamiche meno convincenti del teatro di narrazione, poi la storia prende letteralmente “corpo”, incarnandosi nei gesti dell’attore, che con equilibrio restituisce la forza e l’ostinazione del pugile, e la sua origine zingara. La Storia viene proiettata su dei pannelli che circoscrivono la scena e assume i connotati delle parate naziste e dei volti di noti gerarchi. Le modalità narrative ed emotive sono più o meno le stesse di sempre. Ma aver sentito cento volte storie simili, non toglie allo spettacolo una sua originalità e una sua onestà. (r.s.)
Ripropone la trama shakespeariana de La Tempesta lo spettacolo diretto da Roberto Capaldo, per un progetto di Rebelot Teatro prodotto da Residenza IDra. Prospero e la figlia Miranda, di nobili origini ma finiti sull’isola abitata dal mostro Calibano e dallo spirito Ariele, si muovono in un habitat essenziale e artigianale fatto di canne, tende e lucine tipiche delle feste di paese – creato da Antonio Catalano – dove fanno capolino a poco a poco anche gli altri personaggi noti della storia, naufragati per via di un sortilegio voluto dallo stesso Prospero. I tre attori in scena – Sacha Oliviero, Francesca Perilli e lo stesso Roberto Capaldo – interpretano tutti i personaggi di Tempesta 6+ attraverso travestimenti, un utilizzo delle maschere della commedia dell’arte e un gioco di luci e ombre. Lo spettacolo diventa però sovraccarico di segni, dal ritmo incespicante, e più indicato per un pubblico di ragazzi in grado di seguire un’architettura complessa dove il testo ha una forte componente, nonostante le tante immagini create dalle luci di Iro Suraci. Il punto forse più interessante dello spettacolo risulta infatti l’idea di offrire oggi agli spettatori giovani la riflessione ereditata dal bardo inglese sulla potenza del perdono e del pentimento: solo con questi antidoti speciali la vendetta non genera odio ma un mondo migliore in cui si trova spazio per sognare. (c.t.)
Premiato agli Eolo Awards come miglior novità 2017, Piccoli Eroi del Teatro del Piccione raccoglie storie di migrazione. A partire dal potenziale evocativo della fiaba di Pollicino, tre donne (interpretate da una sempre credibile e intensa Simona Gambaro, che firma anche la drammaturgia, diretta da Antonio Tancredi) abitano altrettante stanze, distanti tra loro eppure unite da una stessa comune storia. Accogliendo attorno a un tavolo sette visitatori arrivati da chissà dove, le donne raccontano le diverse facce del viaggio, di chi parte per trovare un futuro migliore: la madre che ha lasciato andare i propri figli, la donna vittima di un “orco” da cui non può scappare, la moglie di un uomo venuto da lontano. Lo spettacolo coinvolge il pubblico in un’esperienza che va oltre la semplice visione: sette spettatori sono i “viaggiatori”, i piccoli eroi che vengono fatti accomodare attorno al tavolo, coinvolti in minute azioni sceniche. Il resto del pubblico (per un massimo di ottanta persone) è “testimone” e osserva la scena oltre un filtro di rami che delimita la stanza ed evoca la presenza di un bosco a circondarla. Passando da scene di buio totale all’intimità di un lume di candela, dalla condivisione di un piatto di patate alla lettura di lettere custodite in un cassetto, dalle rassicuranti parole di una madre alle grida violente di una donna disperata, lo spettacolo costruisce un percorso di partecipazione e ascolto. Il viaggio, la partenza, la lontananza, l’abbandono, la speranza, la paura della crescita e di un futuro ignoto diventano il centro delle infinite storie di migrazione che accompagnano tutte le epoche. Il Teatro del Piccione affronta questi temi con misurata delicatezza e, allo stesso tempo, senza la necessità di costruire intorno alla durezza del reale un filtro di protezione per gli spettatori. La paura è un’emozione che si può vivere, anche a teatro. (f.s.)
Rodolfo Sacchettini, Francesca Serrazanetti, Carlotta Tringali
Bella iniziativa
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