Tra il 1997 e il 2001, in collaborazione con alcune fra le maggiori esperienze nazionali di teatro ragazzi, l’Ente Teatrale Italiano ha promosso un progetto di ricerca sullo spettatore bambino dal nome “Il tempo dello spettatore”. Un percorso composito, realizzato grazie al confronto con bambini di diverse età, ai cui sguardi si sono affiancati quelli di artisti, operatori teatrali, insegnanti e famiglie. Di questa ricerca, sulla quale oggi ci sembra importante tornare, ha raccontato Mafra Gagliardi ne La bocca dell’immaginazione. La scena teatrale e lo spettatore bambino(Titivillus, 2007). Psicopedagogista, consulente scientifica dell’Osservatorio dell’Immaginario Infantile di Torino, Mafra Gagliardi (fra le altre cose anche redattrice di Eolo) si è occupata a lungo di studiare le dinamiche della ricezione infantile a teatro e del rapporto fra teatro ed educazione. Il frammento che segue, tratto dal capitolo introduttivo del testo, offre una vivida descrizione della platea bambina, dei suoi personalissimi modi di dialogare con la scena e di stare in teatro, come “nella bocca dell’immaginazione”.
Il pubblico – diceva Cesare Musatti – è “il personaggio che tace”. Ma per il pubblico infantile la definizione non vale. Provate ad osservarli, i bambini, a teatro. Quelli che affollano le platee capitanati dai loro insegnanti sono tutt’altro che silenziosi. Quando le luci si spengono, dalla sala si leva un grido. Non esprime tanto paura per il buio improvviso: quanto piuttosto sottolinea il passaggio di una soglia, quasi l’ingresso in un luogo e in uno spazio diversi. Il passaggio dal reale al fantastico, la fascinazione, la paura, l’eccitazione di abbandonarsi al mondo della finzione. Un altrove nel quale la finzione acquista statuto di realtà e l’illusione scenica ritrova il suo spessore semantico (in-ludere significa “entrare in gioco”).
In questo senso dunque, l’inizio dello spettacolo (non sempre coincidente con l’aprirsi del sipario, perché spesso il sipario nel Teatro-Ragazzi non c’è) corrisponde all’incipit di un racconto, al “c’era una volta” della fiaba, all’irrompere dell’imperfetto ludico nel gioco di finzione “facciamo che io ero”… E anche durante lo spettacolo, gli spettatori bambini non si possono paragonare in nessun modo a spettatori adulti in formato ridotto. Mentre l’adulto se ne sta immobile nella prigione semi-fetale della sua poltrona-conchiglia, sottomesso alla cancellazione rituale del corpo richiesta dal suo ruolo, il bambino cambia continuamente postura, prima e durante lo spettacolo: si alza, si gira verso i compagni o all’indietro, si protende in avanti spostandosi sull’orlo della sedia o si adagia sullo schienale. Talvolta addirittura replica i gesti degli attori, in una sorta di mimetismo corporeo: una “congruenza posturale”, che corrisponde a un movimento interiore del pensiero e dell’attenzione e rivela una relazione positiva tra i due soggetti[1].
L’intervento verbale in favore o contro un personaggio, le risate, gli applausi nel corso dello spettacolo, o, al contrario, lo scalpiccio dei piedi, gli sbadigli, i micro-movimenti sulle poltrone, permettono di leggere le oscillazioni della sua attenzione e l’emergenza delle sue emozioni in termini di entusiasmo, noia, attenzione, indifferenza, paura. In questo universo comunicativo rientra anche il segnale limite di abbandono del luogo teatrale: può essere un segno di intensa eccitazione, o, al contrario, esprimere l’insofferenza per un’immobilità a cui non corrispondono sufficienti motivi d’interesse. “Un pubblico di bambini è il migliore dei critici: i bambini non hanno preconcetti, si interessano immediatamente o altrettanto istantaneamente si annoiano e, o seguono gli attori, o diventano insofferenti”[2].
Il fatto è che questo tipo di pubblico non è addomesticabile, non si lascia influenzare dalle critiche, non ha pregiudizi o teorie di nessun tipo. È immune da qualsiasi forma di reverenza nei confronti di un attore o di un drammaturgo famoso. Anzi, per lui il drammaturgo non esiste proprio. Esiste lo spettacolo: il rapporto con l’attore, qui e ora, nella fisicità della scena, nello scambio di energia. E se il rapporto non funziona, non ha nessun motivo di nascondere la sua mancanza d’interesse. Se invece funziona, ecco che il pubblico infantile diventa più “personaggio” di chiunque altro. Un personaggio appassionato, che si lascia rapire nel senso etimologico del termine. Sono i momenti di silenzio denso, totale, in cui gli attori tengono il pubblico nelle loro mani. Ma è anche vero il contrario, il pubblico tiene nelle sue mani l’attore: in quei momenti, respira all’unisono con lui.
(Mafra Gagliardi, Nella bocca dell’immaginazione. La scena teatrale e lo spettatore bambino, Titivillus, Corazzano 2007, pp.11-13)
[1] M.M. Mervant-Roux, L’assise du théâtre. Pour une étude du spectateur, Editions CNRS, Paris 1998, pp. 176-178.
[2] P. Brook, La porta aperta, Anabasi, Milano 1994, p. 50.
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