Ogni volta che si va a teatro con dei ragazzi, o meglio ancora con dei bambini, arriva sempre l’attimo in cui si spengono le luci, scende il buio fittizio che apre lo spettacolo e immancabilmente quel buio crea un mormorio di sorpresa, una promessa di inaspettato, un brivido di mistero, se non di vera e propria paura.
Per Across the Universe, il lavoro che inaugura la giornata di oggi, il buio non è solo quello siderale dello spazio, ma anche quello della condizione odierna di un mondo adulto confinato in un divenire senza potenziale che, come gli astronauti dello spettacolo, corre per raggiungere un qualcosa al di là della sua portata: il confine dell’universo.
Daniele Bonaiuti e Chiara Renzi, autori-attori dello spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole, scelgono l’immensità dell’universo per portare in scena l’infinita ricerca di senso dell’essere umano, infinita e imprendibile come la complessità del cosmo. La scena procede per sketch ed episodi affiancati tra loro e cuciti insieme dal filo dell’esplorazione spaziale, ma in realtà coesi dall’urgenza delle domande, prima fra tutte quella sul senso della vita. Non la vita in generale: proprio la nostra, episodica, mesta, infinitesimale davanti allo spettacolo delle stelle.
La scoperta del cosmo è scoperta di sé, la conoscenza è anche un saper diventare, ma questo richiamo dell’infinito è sia ammaliatore che terrificante e i due astronauti, alla vigilia della missione, si fanno attanagliare dall’ansia: dubbi e crisi di inadeguatezza divorano la parata mediatica approntata per l’occasione. L’opera ricorda nel linguaggio l’esperienza dei Sotterraneo, con cui gli attori hanno collaborato proprio in un lavoro rivolto all’infanzia (La repubblica dei bambini, sempre una produzione delle Briciole), e avvicina spot e lustrini, “edutainment” e reality show, dichiarazioni d’amore e eventi sportivi in un susseguirsi serrato di scenette e musiche, come in uno zapping contemporaneo.
L’ironia e la levità con cui Across the Universe costruisce il discorso non addolcisce l’inevitabile nichilismo che il futuro dispiega innanzi: l’impossibilità di diventare adulti, di avere un lavoro, una famiglia, una pensione, tutto raccontato sullo sfondo di pratiche del benessere tanto di moda oggi, dallo yoga alla cura di sé, quasi fossero escamotage per sfuggire alla lama delle inquietudini. Queste tornano ancora e ancora, camuffate nell’ipertrofia del narcisismo e dei fenomeni di divismo, come nell’intervista alla star del momento, il sole, che sembra uno dei tanti psicologi da social media quando raccomanda di essere se stessi e di continuare a bruciare sempre.
“Che senso ha la mia vita?”, chiede il Teatro delle Briciole al suo pubblico adolescente. Risposta non c’è, rimane un minuto di vita, da passare sotto un riflettore, continuando a porre domande.
Di sapore radicalmente opposto, e dedicato a un pubblico assai più giovane, L’albero di Pepe di AGTP – Teatro Pirata, racconta una favola di amicizia e collaborazione, portando in scena la storia di una bambina, Pepe, che per avere un po’ di tranquillità e di ascolto si rifugia su un albero, e lì rimane, novella barone rampante, fino a che l’arrivo dell’inverno non la mette in contatto con l’infinito mutamento delle cose, mentre l’irrompere della guerra la aiuterà a ritrovare il fratello. Passato l’orrore, l’amato albero, ormai giunto al termine del suo ciclo vitale, si trasforma in casa per accogliere la nuova vita dei due fratelli. Una favola raccontata con canzoni e pupazzi di animali, in una messa in scena più consueta ma capace di accogliere nella sua trama l’entusiasmo dei bambini che rispondono alle domande sia implicite che esplicite degli attori, e sono pronti a segnalare con risate e interventi ogni accadimento, l’arrivo di un nuovo animaletto sull’albero, i rimbrotti degli adulti “assenti”. Uno spettacolo che nella semplicità del racconto include, con leggerezza, lo sguardo del suo pubblico, pronto ad assecondarlo, a divertirlo, a dargli spazio, mettendo davanti a ogni altra questione la piacevolezza del tempo che i bambini trascorrono a teatro.
Ancora favole, questa volta imbandite in solitaria da Fabrizio Pallara per Fiabe da tavolo del Teatro delle Apparizioni. Sono racconti in valigia pronti a essere trasportati ovunque, mondi in miniatura che già vivono nell’immaginario di grandi e piccini. Non c’è sorpresa, non c’è trasformazione narrativa, il giovane pubblico sa già cosa accadrà, ma c’è la magia di una restituzione delicata e immaginifica che, con pochi semplici segni e con la virtuosità interpretativa e affabulatoria dell’intervento attoriale, prende vita pronta a depositarsi nella memoria e nell’esperienza degli spettatori. Boschi di sughero e carta, coriandoli come prati fioriti, personaggi-dita riconoscibili da un semplice indicatore cromatico, oppure una sfilata di cartoline per un viaggio intorno al mondo, paglia, legno e mattoncini per le casette in miniatura, baffoni neri per l’irresistibile lupo: questa volta sono state raccontate le fiabe di Cappuccetto Rosso e dei Tre Porcellini, ma viene da chiedersi quali altre invenzioni, e quali altre magie, contengano le borse da viaggio di Pallara. Non resta che aspettare, come una volta si aspettavano i cantastorie girovaghi, per un’altra ora di fantasia e incanto.
Lucia Oliva
Se fossimo adulti sapremmo individuare certi riferimenti a Il lago dei cigni, avremmo vita facile a goderne la suggestione. Se fossimo adulti cadremmo facilmente nella trappola di rivivere la fiaba seguendo certi antichi ricordi, troppo flebili per rintracciarla davvero, troppo coscienti per davvero assecondare un’emozione purificata dalla nostalgia per l’età infantile. Se fossimo adulti troveremmo utile questo ricorso al vissuto, ma non lo siamo. Siamo bambini di fronte al Diario di un brutto anatroccolo, fiaba scritta da Hans Christian Andersen e tradotta per la scena dalla mano gentile di Tonio De Nitto con Factory Compagnia Transadriatica. Siamo nella fiaba per un pretesto coraggioso di indurre domande difficili sul tema della diversità, dapprima deficit di inclusione, infine punto di forza di un’elevazione imprevista. Con i tre attori-danzatori (Ilaria Carlucci, Fabio Tinella, Luca Pastore) che sviluppano una relazione molto stretta, trovando cioè il legame con cui farsi comunità, in scena è chi soffre l’esclusione, l’anatroccolo (Francesca De Pasquale) che non riesce a inserirsi secondo i canoni riconosciuti dal gruppo e vive l’emarginazione in famiglia, a scuola, nel mondo del lavoro, nell’illusione d’amore. De Nitto affronta il tema con delicatezza e decisione, sfrutta del teatro la possibilità che l’incanto non sovrasti una necessaria problematizzazione e compie così l’intero arco della creazione soprattutto dedicata all’infanzia: dispone con cura e pulizia espressiva gli elementi della scena perché fuori, in questo caso gli adulti, sappiano ricondurli a fini educativi. Certo, colto ognuno da quella impressione di meraviglia, a trovarne di adulti in sala.
Simone Nebbia
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